Nel rapporto Cashless Cities condotto da Roubini ThoughtLab per Visa sullo stato dei pagamenti digitali nelle più importanti città del mondo, la capitale italiana viene annoverata tra le città digitally transitioning, ossia tra le realtà in cui il passaggio dai contanti agli strumenti digitali di pagamento è tuttora allo stadio iniziale. Accanto a Roma compaiono le capitali del Medio Oriente, della Russia e dell’India.
Ad incidere in modo significativo sulla lentezza della transizione è anche l’attaccamento degli italiani conservano ancora oggi verso il denaro contante.
Diversamente dal Giappone, dove banconote e monete rappresentano una sorta di culto perfino nella futuristica Tokyo, in Italia l’attaccamento al contante è dovuto alla percezione di un vantaggio economico, ossia alla presunta assenza di costi, ma anche alla scarsa cultura digitale di imprese e consumatori, come indicato nel Rapporto 2022: verso un’Italia cashless di The European House Ambrosetti.
Malgrado il nostro paese sia tra i primi in Europa per numero di strumenti abilitanti (60,8 terminali per 1.000 abitanti) risulta tra gli ultimi paesi europei (25esimo su 27 paesi) per numero di pagamenti con carta pro-capite. In una posizione diametralmente opposta vi sono paesi come Danimarca, Finlandia, Svezia e Paesi Bassi, in cui la diffusione dei cosiddetti strumenti abilitanti è nettamente inferiore (25-30 terminali per 1.000 abitanti) ma registrano al contempo un elevato utilizzo di pagamenti con carta.
Mentre l’arretratezza della cultura digitale si combatte incentivando i fattori abilitanti (es. accesso alla banda larga), l’errata percezione del vantaggio economico dei contanti si contrasta invece con i dati. L’uso del contante – come stiamo per vedere – produce in realtà una serie di costi diretti e indiretti per esercenti e consumatori. Tali costi, non essendo riportati in fatture e scontrini, danno luogo ad un spesa maggiore, ma spesso ignorata, rispetto alle transazioni elettroniche.
Il peso del contante in Italia e nel mondo
Nel già citato Rapporto 2022 pubblicato da The European House Ambrosetti, stilato in collaborazione con la Community Cashless Society, l’Italia emerge in 29esima posizione su 144 economie prese in esame per il Cash Intesity Index (CII). Altresì detto, il nostro paese rientra tra i primi 30 per uso di contante, che nello scorso anno ha inciso per il 15,4% sul PIL nazionale.
Per avere un’idea più chiara del quadro occorre però osservare almeno alcuni dei 28 stati che precedono l’Italia: Guatemala (16,5%), Egitto (17,6%), Senegal (18,7%), Bosnia-Erzegovina (19,9%). Al vertice della classifica spicca l’Iraq, dove il cash incide per il 53,8% sul Prodotto Interno Lordo.
La classifica dei “30 peggiori” è dunque prevalentemente occupata da economie in cui fattori e strumenti abilitanti non godono di buon tasso di sviluppo. Diverso è il caso dell’Italia, e non solo.
Fonte dati: The European House Ambrosetti – Grafico: Mobile Transaction
Cash Intesity Index 2022. Indicatore di incidenza dei contanti sul PIL.
Nella medesima classifica non passa inosservato il Giappone, la terza economia al mondo, dove i contanti pesano il 21,1% su un PIL di 4.937 miliardi di dollari (2021). Il paese orientale – pur ultratecnologico – è infatti noto per la sua “devozione” nei confronti di banconote e monete. Casi come quello del Giappone vengono spesso utilizzati in ambito politico per avvalorare la tesi secondo cui un’intensa circolazione di contante non nuoce l’economia. Esempi come quello del Giappone, o della Germania per restare nei confini europei, non sono però termini di paragone adeguati al nostro paese, dove il tasso di evasione fiscale è notevolmente più elevato.
Ancor più interessante è il confronto del Cashless Society Index (CSI) 2022 tra paesi europei. Su una scala da 1 a 10, dove 1 indica un basso grado di digitalizzazione delle transazioni e 10 il grado più elevato, all’Italia viene assegnato un punteggio di 3,43 – in calo rispetto allo scorso anno (3,60 nel 2021).
Un dato esplicativo sul rapporto tra italiani e denaro contante è fornito dalle statistiche relative al periodo 2008-2017. Nonostante il notevole progresso sia in termini di sviluppo tecnologico sia di diffusione degli strumenti digitali, l’uso di contante si è intensificato sensibilmente, passando dai 128 miliardi di Euro del 2008 ai 198 miliardi del 2017. Di pari passo procedono i prelievi agli sportelli automatici (ATM), il cui calo – seppur lieve – registrato negli ultimi anni è presumibilmente legato al cambio di abitudini derivanti dalle restrizioni imposte durante l’emergenza sanitaria del 2019, causate da quel che potremmo definire un evento traumatico.
Infine, a dimostrare il saldo legame tra italiani e contante è anche il valore medio della transazione elettronica, pari a 57,50 Euro. Confrontata ai dati europei, la transazione media in Italia è marcatamente più alta rispetto ai paesi che presentano un elevato tasso di pagamenti digitali, ad esempio quelli scandinavi. Si deduce che l’italiano medio mette mano alla carta soprattutto per saldare conti di diverse decine di euro, mentre preferisce il contante al di sotto del sopraindicato valore medio.
Appurato il peso delle banconote nell’economia locale, cosa accade quando si usano molti contanti? Una prima risposta viene fornita dal rapporto sulle Cashless Cities di Visa, secondo cui negli Stati Uniti ogni anno si “bruciano” in media 200 miliardi di dollari in spese e perdite legate al cash.
Il costo dei contanti per i consumatori
Come parte di un sistema interdipendente, consumatori, commercianti e Stato condividono nella stessa misura la responsabilità per il costante incremento dell’uso del denaro contante.
Partendo dai singoli individui, ossia dai consumatori, il costo dei contanti inizia a gravare fin dalla prima azione necessaria affinché possa essere messo nel portafogli e in seguito utilizzato, cioè il prelievo.
Il prelievo di contanti presso l’ATM della banca non è sempre gratuito, sia in termini di spese sia in termini di tempo.
Quanto tempo perdiamo allo sportello?
Innanzitutto, per evitare le commissioni sull’operazione è talvolta necessario raggiungere la filiale del gruppo bancario in cui si è correntisti: secondo i dati del rapporto Cashless Cities tragitto e tempi di attesa presso lo sportello automatico “rubano” in media 6,4 ore all’anno ad ogni consumatore.
Dato tendente nel tempo ad una costante crescita se consideriamo che in Italia cala di anno in anno il numero di ATM, come comunicato dalla Federazione Autonoma Bancari Italiani (FABI): nel 2022 sono 3.062 i comuni italiani senza sportello bancomat nel proprio territorio, dato che si traduce nella difficoltà di ben 4 milioni di italiani (circa il 7% della popolazione) di prelevare contante nel raggio di pochi chilometri dal proprio domicilio.
Il “tempo perso” non fa che peggiorare se prendiamo in considerazione esecuzione di bonifici per cassa e pagamento di imposte tramite filiale fisica, per una media annua di 7,3 ore.
Ancor più incisivo è il dato relativo al tempo impiegato per il pagamento di bollette e imposte: sono 12 le ore trascorse ogni anno dai consumatori che sottovalutano (o respingono) la tempestività ed efficienza dei mezzi digitali.
Quanto costa un prelievo?
La commissione addebitata al prelievo di contanti varia da istituto a istituto. Nella tabella che segue riportiamo le tariffe addebitate da alcune delle più popolari banche in Italia:
Banca | Commissioni (€) |
---|---|
Intesa Sanpaolo | da 0 a 2 |
Unicredit | da 0 a 2 |
BPER | da 0 a 2,70 |
Bancoposta | da 0 a 1,75 |
BPM | da 0 a 2,10 |
Secondo la Banca d’Italia, gli italiani spendono spendono in media 76 centesimi per operazione di ritiro contanti, sostenendo dunque spese maggiori rispetto a quelle che un esercente paga per le commissioni POS.
Gli istituti bancari tendono a privilegiare il prelievo presso filiali dello stesso gruppo, non addebitando commissioni. Diversa è la situazione dei correntisti costretti a rivolgersi ad altre banche – circostanza sempre più ricorrente alla luce del drastico calo di sportelli automatici (ricordiamo che oltre 4 milioni di italiani devono uscire dal proprio comune per prelevare denaro contante).
Alcune banche privilegiano invece la quantità di denaro prelevato, come nel caso delle banche digitali che non dispongono di filiali fisiche. L’operazione risulta gratuita se l’importo prelevato è superiore ad una certa somma (generalmente 100 euro), piuttosto dispendiosa (1-2 euro) se invece si ritirano importi inferiori. A tal proposito entra in gioco il fattore furti e rapine.
Nell’ultimo rapporto sulla sicurezza in Italia, il Censis rende noto che oltre la metà dei cittadini (51,7%) teme di poter subire reati. La percezione della sicurezza personale non viaggia di pari passo al numero effettivo di reati commessi (o quantomeno di denunce), per i quali si è registrato un notevole calo dal 2012; si può tuttavia presumere che la percezione del rischio cresca in presenza di talune condizioni e situazioni, come può essere il prelievo e il trasporto di diverse centinaia di euro in contanti.
Come vedremo più avanti, alcuni studi sul tasso di crimini cosiddetti cash-related in alcune città europee mostrano legami tra riduzione dell’uso di contanti e calo di piccoli reati.
Il costo dei contanti per le imprese
Imprese e commercianti sono – ancor più dei consumatori – sottoposti ad una serie di spese dovute all’enorme quantità di banconote e monete che, forse in modo paradossale (o forse no), sono lieti di accogliere nella propria attività.
Sebbene incassare denaro contante non comporta – nel momento del pagamento – alcuna commissione, il calcolo dei costi relativi alla sua gestione ammonta al 2% dei ricavi mensili, mettendosi in pari e non di rado superando le spese sostenute per il servizio POS.
A condividere le medesime conclusioni vi è Banca d’Italia. Nel 2022 la banca centrale italiana torna a sottolineare – nell’Audizione preliminare all’esame della manovra economica per il triennio 2023-2025 – che «per gli esercenti, il costo del contante in percentuale dell’importo della transazione è superiore a quello delle carte di debito e credito.»
Insomma, tra operazioni bancarie, trasporto, assicurazione e sistemi di sicurezza agli esercenti il cash costa più dei metodi per ricevere pagamenti elettronici.
Nelle città definite digitally advanced come Chicago, dove il contante rappresenta una parte significativa delle transazioni totali ma al contempo viene bilanciato da un alto tasso di pagamenti digitali, la spesa complessiva per la gestione del contante scende all’1% dei ricavi mensili dell’impresa.
Alle spese dirette e indirette si aggiungono le perdite sul transato dovute ai reati strettamente connessi al denaro cash. Furti, rapine e contraffazione di banconote e monete bruciano circa il 4% delle entrate mensili.
Nel 2021 le banconote preferite dai falsari sono quelle da 50 euro, seguite dai biglietti da 20 e quelli 100. Inutile parlare delle conseguenze di un eventuale tentativo di rimetterle in circolazione una volta entrate in cassa: nel “migliore” dei casi il rischio è la perdita di fiducia di clienti o fornitori, nel peggiore entra in gioco il Codice Penale.
Non meno grave è il problema della contraffazione in Europa: nel 2020 la Banca Centrale Europea ha ritirato dal mercato 460.000 banconote false composte per due terzi di biglietti da 20 e 50 euro. Il dato confortante è la tendenza decrescente di tale dato: maggiore il numero di pagamenti elettronici, minori sono i rischi di perdite per imprese e consumatori.
Nelle città cash centric (es. Città del Messico, Bogotà, Casablanca, Beirut), dove l’uso di banconote e monete è prevalente e le infrastrutture digitali poco sviluppate, la media dei crimini legati al contante tocca la cifra vertiginosa di 216.451 reati denunciati.
Nelle città digitally transitioning (es. Roma, Caracas, Istanbul, Bucarest) il numero medio dei reati scende a quota 165.325.
Media annuale furti e rapine
Fonte: Roubini ThoughtLab
Nelle città digital leader (es. Sydney, Auckland, Toronto, Copenhagen) la media di crimini denunciati annualmente e motivati dalla presenza di denaro contante toccano la soglia di 62.564 con tendenza al ribasso nel tempo, ossia con l’avanzamento della diffusione dei pagamenti digitali.
Non meno importante è la rinuncia al guadagno alla quale le attività cosiddette cash only si sottopongono deliberatamente allo scopo di evitare le commissioni previste per le transazioni elettroniche. Un nuovo paradosso che vede, dall’altro lato del banco, un consumatore costretto a rinunciare ogni mese ad una spesa media di 73 dollari per acquisti non pianificati all’interno di negozi non dotati di terminale POS. A tale dato si lega ancora una volta il discorso sulla percezione di insicurezza (furti e rapine), che dissuade il consumatore dal portare con sé elevate somme di contante.
Alle entrate rifiutate indirettamente a causa della riduzione delle opportunità di vendita si aggiunge il tempo “rubato” dal complesso di operazioni legate al cash – dal conteggio di banconote e monete alla quadratura del bilancio giornaliero, dal deposito su conto bancario al pagamento dei fornitori che preferiscono il cash e, ancora, il prolungamento della coda al punto cassa del negozio causato dall’incessante ricerca di monetine.
Da una stima complessiva di tali operazioni, l’istituto di ricerca Roubini TechLab fissa a 88 il numero delle ore mensili fatte trascorrere (lentamente) da un elevato uso dei contanti.
Riprendendo l’esempio della città digital leader di Stoccolma, come riportato nella relazione sulle Cashless Cities, se cittadini e ed esercizi commerciali si mettessero al passo con il 10% della popolazione già “digitalmente matura”, le imprese risparmierebbero ogni anno 3 miliardi di dollari – in media $ 5.573 per ogni milione di ricavi – semplicemente abbattendo le spese di gestione del contante.
Le perdite dello Stato e della collettività
Se le perdite di imprese e consumatori sono un fatto privato e relativamente contenuto, le misure dei danni causate dall’uso di contanti diventano insostenibili per lo Stato – e di conseguenza per la collettività: meno imposte vengono riscosse, meno fondi saranno disponibili per servizi pubblici quali sanità e istruzione.
Il rapporto VAT Gap 2022 della Commissione Europea rivela che l’Italia è prima in classifica (su 27 paesi membri UE) per mancata riscossione dell’IVA con 26,2 miliardi di euro persi, seguita dalla Francia (14 miliardi) e dalla Germania (11,1 miliardi).
Fermo restando che non sia possibile provare empiricamente la correlazione tra tasso di evasione fiscale e uso di denaro contante (i casi di Giappone e Germania ne sono un esempio) è invece appurato che in Italia le regioni con un elevato uso di denaro contante siano anche quelle con il maggior tasso di evasione dell’IVA, come osserva l’Ufficio parlamentare di Bilancio. Inoltre, le motivazioni “ufficiali” impiegate da imprese ed esercenti nell’opposizione all’obbligo POS (cioè il peso delle commissioni) non trovano riscontro nella realtà: i contanti – tra contraffazione, errori umani, rapine e furti, sicurezza e assicurazione – finiscono per costare più del pagamento elettronico, come ribadito nell’Audizione preliminare di Banca d’Italia alla Legge di Bilancio 2023.
Allargando il campo alla cosiddetta economia sommersa, secondo le analisi dell’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT) ammonta a 171,6 miliardi il giro d’affari non dichiarato, legato non ad attività illegali bensì ad attività legali i cui proventi rimangono nel buio – soprattutto grazie al supporto di mezzi di pagamento non tracciabili.